08 June, 2009

giravolte journal - Intervista a Catherine David - Aprile 2006

Curatrice e teorica d'arte, Catherine David affronta la produzione contemporanea come una speleologa, affondando il suo sguardo negli interstizi degli spazi dedicati all'esposizione e alla produzione culturale dove si formano visioni e pensieri conflittuali. Traccia possibili mappature per aprire piattaforme di discussione e forum d’incontro e d’informazione, come accadde per Documenta X (1997), in Contemporary Arab Rappresentations (2003-2006) e in The Iraqi equation prossimamente alla Fondaciò Antoni Tàpies. 
Il suo metodo di lavoro comprende anche il viaggiare, nel senso esteso dell'esperienza, a cui si dedica come strumento di conoscenza, ricerca e scambio. Attenta alle tensioni politiche e sociali, affianca fotografi, artisti, scrittori, filmmakers, musicisti, attivisti, poeti, analisti politici per la produzione di inediti spazi dedicati al dialogo e al pensiero critico. 
"Lo scopo è di tracciare differenti livelli di riflessione, partendo dal lavoro degli artisti e rimanendo attenti ai discorsi del passato recente e lontano", scrive su Middle East News on Culture and Politics. 
L'abbiamo incontrata in occasione della sua lecture al Macro di Roma, parte della serie Art Highlights curata da Dobrila Denegri. Vorremmo parlare della relazione tra la civiltà occidentale e quella araba. Sia quella che esiste tra i diversi paesi sia di quella che coesiste all’interno delle stesse nazioni. Si può parlare, secondo lei, di un conflitto tra civiltà o no? Viviamo in civiltà separate?
Non sono d’accordo con l’idea dello scontro di civiltà. In realtà non si può essere d’accordo o meno, basta leggere le cose che scrive la stampa. Credo che sia una fabbricazione ideologica, non una realtà. Non ci sono mai stati conflitti di civiltà, ci sono state tensioni, e c’è una storia di conflitti tra alcuni territori europei e l’oriente, perché la questione appartiene all’oriente, l’altro di cui gli arabi sono solo una parte. Oggi ci sono delle culture arabe, ma non credo che siano più ferme o antagoniste delle culture asiatiche. La teoria dello scontro tra civiltà è una teoria da “nemico”. È banalizzante. Se guardiamo la storia vediamo che tutti i grandi momenti sono stati momenti di scambi, incontri - in permanenza - tra il mondo orientale e occidentale. Credo ci sia grande ignoranza verso la società contemporanea araba. E alcuni regimi arabi sono complici in questo, perché riportano al passato tutti i grandi momenti della loro storia: l’archeologia, i testi sacri, la cultura andalusa, Averroe. Credo che anche questa sia una costruzione e che bisogna guardare all’oggi, il mio progetto è partito in questo modo. Il problema è che non abbiamo accesso, non siamo informati su quello che accade in questi paesi, e delle volte questo deficit di informazioni proviene da quegli stessi paesi che preferiscono pubblicizzare Petra o i faraoni. Ciò che si produce nel mondo arabo, la cultura contemporanea, il dibattito culturale e politico, non è assolutamente riducibile all’integralismo di cui parla l’occidente. Io non parlo nemmeno di Islamismo moderato, perché questo Islamismo caricaturale di cui si parla in Occidente è assolutamente minoritario. Al contrario non abbiamo alcun accesso ai testi di rivendicazione politica, di emancipazione, alle teorie che si sono sviluppate dalla fine del diciannovesimo secolo e che sono state sistematicamente sradicate prima dai colonialisti e dopo dagli stessi paesi. Se ci facciamo delle domande su quello che succede nelle società arabe, nei loro sistemi politici ed economici o culturali, non possiamo riportare tutto all’Islamismo. È troppo facile. È come dire che non ci sono problemi sociali, culturali e politici. Quindi manca la circolazione del pensiero…
Non conosciamo le idee che si sviluppano nel mondo arabo per diversi motivi. Già in partenza il deficit d’informazione deriva dal fatto che alcuni testi sono bloccati nei paesi d’origine per problemi di censura o, anche, perché ci sono grandi difficoltà nella distribuzione tra un paese ed un altro. A questo va aggiunto che, per problemi di traduzione, non riusciamo ad avere questi testi e discorsi in tempo reale. In Francia, per esempio, le case editrici che pubblicano libri arabi privilegiano i testi che hanno avuto successo nel loro paese, e questo è completamente folle, perché spesso i libri che non hanno successo sono proprio quelli che nei loro paesi non sono accettabili. Ed i libri che hanno più ampia circolazione sono proprio quelli che danno meno fastidio. Questo è un esempio insieme a mille altri. Per esempio non ho mai visto sulla stampa dominante un’intervista al capo di Hamas. È molto raro. Allora di cosa parliamo? Gli helzbollah, altro esempio, dicono cose anche interessanti. Sono un partito di governo, democratico o non democratico poco importa, ma dovremmo conoscere le loro idee prima di dire le nostre cose.
Credo che oggi la critica verso l’Islamismo sia generica, come se l’Islam non fosse una religione, ma un’essenza. L’Islam non è un’essenza ma una religione che si sviluppa nel mondo, si trasforma nella società e nella storia. L’Islam è molto più del Corano. Pensare di parlare sempre di un’epoca in cui eravamo tutti felici e uniti trovo sia una posizione aristocratica. Credo che il popolo pensi ad altro, e non si può licenziare un popolo; credo abbiano molte ragioni per ascoltare i discorsi radicali, e che non ci siano che questi discorsi penso sia anche una responsabilità europea, che ha sempre condannato tutte le espressioni radicali e di dissenso dei partiti di opposizione, ai quali non è mai stato lasciato uno spazio. In Egitto, per esempio, dove non ci sono altri spazi di opposizione, non c’è uno spazio democratico.
Ovviamente penso che alcuni esponenti radicali siano dei folli, ma quando viaggio non mi sento in pericolo o in un altro pianeta. Io personalmente mi sento più a casa al Cairo che a Londra, perché al Cairo le relazioni tra le persone funzionano meglio. Ma esiste un’arte che riflette questa situazione? 
Ci sono artisti, produzioni contemporanee (film, libri, video, testi, foto) estremamente eterogenei. Credo che uno dei problemi della modernità araba è che si deve confrontare con discronie molto forti. Cioè con dei paradigmi, delle pratiche, delle referenze che non sono assolutamente sovrapponibili e che lavorano in spazi completamente eterogenei. Da qui la difficoltà di confrontarsi. Per esempio abbiamo a che fare con calligrafi (che è un’arte vivente), con chi lavora con la globalizzazione, che magari ha studiato nelle università americane, o con chi lavora, per esempio, sul cinetismo.
Il problema è l’accesso limitato allo spazio pubblico, il limite è la mancanza di dibattito. Le immagini e i lavori devono circolare, e questo è difficile, non c’è la pratica del dissenso, di cui c’è bisogno. La gente è stanca, in Egitto, per esempio, dove c’è una sorta di dittatura, è difficilissimo organizzare un dibattito. 
Credo che comunque ci siano certi margini di manovra che possiamo avere, giostrando tra il produrre degli avvenimenti lavorando in situ, e dialogando con quello che si può fare in Occidente.
Se guardiamo i giornali, l’immagine più frequente del mondo arabo è “la strada araba”, dove vediamo gente che urla, gente che proviene da ambienti sfavoriti. È molto raro che si possa vedere la classe media, gli intellettuali o giovani che riescono a esprimersi in modo coerente. Abbiamo delle rappresentazioni estremamente stereotipate. In Iraq è lampante. Là ci sono dei blogger, che scrivono cose formidabili. È gente della alta borghesia, c’è una differenza di punti di vista, ma tutti loro sono iracheni.
C’è un dissenso, l’opinione pubblica araba ha qualche ragione per esser innervosita con l’Occidente, per il modo con cui li tratta, per i discorsi che veicola, per il modo di risolvere i problemi al loro posto. Ci sono anche delle ragioni cartesiane a questo dissenso, non sono solo dei deliri o delle idee campate per aria.
Guardate Hamas, che è stato eletto democraticamente con delle elezioni (che non è frequente nel mondo arabo) svolte in modo molto più corretto e sereno di quelle che si sono svolte in Egitto, ma nessuno ha mai detto niente sulle elezioni egiziane, dove hanno trafficato, fatto dei brogli. Nessuno ha detto niente. 
C’è un dissenso che non pensa al conflitto totale, dovremmo iniziare da questo. Non tutti gli islamici sono assassini, ma soprattutto è fondamentale capire che non si possono mettere sotto l’ombrello della religione tutti i problemi sociali e politici che non hanno niente a che vedere con la religione.
Certo alcuni partiti strumentalizzano il disagio, e bisogna dirlo, come bisogna dire che certe posizioni giocano con la religione, ma ho parlato con dei leader politici e con loro non parlavo di religione, non mi interessa, non è il mio livello. Parlavamo di politica. 
Perché, credete forse che Hamas parli di religione? No. In realtà io credo di si. Perché la religione è parte fondamentale delle proprie posizioni etiche e, quindi, politiche …
 Si, d’accordo, ma il problema è che parliamo di religione quando dovremmo parlare di economia, politica o società. Non abbiamo lasciato alla società araba e mussulmana, la scelta, la possibilità e il tempo di compiere un processo di secolarizzazione, che è già cominciato. 
La maggior parte delle persone con cui lavoro sono persone totalmente secolarizzate. Festeggiano il Ramadan come si festeggia il Natale, e nessuno ha mai fatto dell’ostracismo perché si festeggia il Natale … …o perché si va a Lourdes…
 Il processo di secolarizzazione delle società arabe o mussulmane, non è terminato, e ha delle forme differenti da quello della nostra società. Ma anche nella nostra società non è terminato. 
Dobbiamo essere molto fermi su certi discorsi, ma non possiamo mettere tutto nello stesso paniere. Dobbiamo capire come le cose si sono sviluppate. Come è nato Hamas? Come sono stati finanziati i suoi esordi? Lei ha parlato della modernità araba, ma crede che la stessa modernità sia presente anche nel mondo mussulmano occidentale, nelle periferie francesi, per esempio?
 No. La modernità è un fenomeno complesso, è un sistema che non prevede che qualcuno possa starne al di fuori. Siamo tutti moderni. La questione è dei paradigmi e delle sequenze che non sono sovrapponibili. Ci sono delle pieghe che non sono della stessa “materia”.
Ho l’impressione che le banlieus abbiano molto meno a vedere con il mondo arabo che con la cattiva gestione dei problemi sociali. Chi ha bruciato le vetture? Non sono dei francesi di origine araba o africana. Sono giovani che hanno tutti gli stessi problemi. Credo che anche in Francia ci sia una manipolazione. Il problema sono i discorsi di Sarkozy, il fatto di non avere loro spazi dove potersi sviluppare, vivere, lavorare. Sono immigrati della quarta generazione, ed il loro problema non è la religione, non hanno alcuna idea di cosa sia l’Algeria, non ci sono mai stati. E la risposta a questo disagio è stata la costituzione di un Consiglio francese dei mussulmani che è un bel sistema per manipolare, esibire e controllare i più radicali. Lo trovo un sistema imbecille e non necessario. Se si vogliono prendere delle misure immediate penso che sarebbe molto meglio controllare la circolazione degli Imam. È possibile una relazione tra un artista arabo o africano e un curatore occidentale, o tra un produttore occidentale e un regista arabo o africano , che non sia una relazione coloniale? 
La nostra società è incosciente (non parlo dei cinici ma delle persone “di buona volontà”), nel senso di senza coscienza della colonizzazione. Non credo che siamo usciti dal momento coloniale, e sono interessata al lavoro sulla differenza coloniale piuttosto che al post coloniale, perché penso che se andiamo troppo veloci poi non ci rendiamo conto che da certe dinamiche non siamo ancora usciti. Ma credo che siano questioni che si possano risolvere in relazioni individuali, volta per volta. 
Cioè un regista o un artista arabo può essere strumentalizzato. Ci sono ovviamente artisti con i quali non lavorerei mai, gente che folcklorizza le situazioni, che estetizza i problemi. Ma credo che effettivamente una collaborazione non solo è possibile ma può realizzarsi su un livello di eguaglianza. A cominciare dal fatto che ci sono degli intellettuali e degli artisti estremamente potenti, articolati nel mondo arabo. Sono quelli che non si vedono e che non si farebbero mai mettere in una situazione paternalista o coloniale.
È lo stesso rapporto che si crea nel mondo occidentale tra chi può produrre e ha i mezzi di produzione e chi deve trovare accesso ai mezzi di produzione …
Un problema che vedo è che le società arabe sono delle società dove, per ragioni storiche, culturali o etiche, è estremamente non ben visto il parlare in prima persona. Ci sono pochi documentari, non tutti buoni, ma c’è Sawsan Darwaza una regista libano-giordana che mi interessa e che ha iniziato a fare delle interviste (è già alla quinta) di cinquanta minuti a degli intellettuali, produttori e artisti del mondo arabo, e penso che questo indichi che le cose stiano cambiando.
Quello che manca, per delle ragioni di informazione, è che le persone possano sentire degli argomenti, dei ragionamenti, e non vedere solo delle facce: un arabo, un mussulmano. A questo proposito penso che sia molto bello un documentario There are so many things still to say (1996) che è una intervista con Sadallah Wanus uno dei più grandi autori teatrali siriani e sono le sue ultime settimane di vita, in un ospedale, e nell’intervista si ripercorrono cinquant’anni di storia araba, di footage. Quindi tutto è possibile. Quali sono le forme di rappresentazione del disagio odierno, nel mondo arabo, ma anche nel mondo occidentale, tra i giovani delle banlieus, per esempio.
 Quello che succede nel mondo arabo ha un senso specifico. La televisione ha un ruolo fondamentale, è una narrazione della storia sociale ed è fondamentale nel senso dell’autorappresentazione. Quando parlo di televisione del mondo arabo parlo di Al Jazeera come anche di altri canali, ma soprattutto di Al Jazeera, anche se non è così libera come si dice. Negli ultimi anni vediamo che il ruolo della televisione è molto importante, è alternativo a certe situazioni completamente bloccate, dove sembra che tutti siano coinvolti nella Jihad. Invece ci sono dibattiti politici molto forti… … al contrario dell’Italia… che in Francia non si vedono, perché non vengono tradotti. Però il problema della televisione e del suo rapporto o non rapporto con il cinema è un problema solamente europeo. Credo che Daney avesse ragione: la nuova generazione non può più essere una generazione cinefila, non è la generazione post ’45 che si raccontava al cinema. Oggi è la televisione che fa questo lavoro con i talk show e i reality show. E tornando alle banlieus, non so se i giovani si siano filmati dietro le barricate, non avrei accesso a queste immagini. Pensare comunque che il cinema non possa essere in grado di rappresentare queste realtà mi sembra esagerato. Già da Documenta X erano presenti artisti che nei loro lavori producono anche informazione proprio come oggi sono i documentaristi a produrre informazione al posto della stampa e delle tv imbavagliate. Un altro problema è poi la diffusione di questi lavori. Ma per esempio è possibile creare un ponte attivo riconoscibile e accessibile tra questo tipo di milieu in occidente ed un milieu simile nel mondo arabo tra un artista ed un altro? 
Credo che fino ad un certo punto le persone si parlano e si riconoscono, da artista ad artista, da informazione a informazione. Quando guardo l’informazione sull’Iraq è chiaro che i grandi giornalisti arabi o i bloggers sono perfettamente in sintonia con quello che scrivono i giornalisti di investigazione americani di sinistra.
C’è un problema di accesso e interesse per l’informazione, anche se gli arabi sono mille volte meglio informati, leggono enormemente, hanno una serie di traduzioni non ufficiali per i libri. Sono rimasta molto sorpresa nel sapere quello che gli iracheni leggono o hanno letto, e le traduzioni che fanno tra di loro dei testi occidentali. C’era una cultura d’avanguardia in Iraq negli anni Settanta, è una cultura molto sviluppata, di gran livello, ma c’è uno scarto tra la conoscenza e l’analisi delle minoranze e l’accesso a questa conoscenza da parte di una massa disinformata e disarticolata. Questo problema si pone in tutto il mondo arabo. Tutti i discorsi affrontati fino adesso rientrano nella sfera politica. È possibile oggi fare arte prescindendo dalla politica?
 L’arte è assolutamente al cuore della questione politica. Dire questo non vuol dire parlare di arte politica, che non mi interessa proprio e penso che quando l’arte si autorivendica come politica è l’inizio della fine. Al contrario penso che ogni dibattito estetico, in se, sia un dibattito politico. E poi cosa è l’estetica? È discutere di una forma o di un’altra, di un fuori o di un dentro, ma questo è, ed ha un eco nei discorsi politici, intendendo per politica non la gestione delle cose, ma politica nel senso di necessario dissenso, in una democrazia, da parte di quelli che non contano. 
Tutte le opere in generale, e tutte le opere forti in particolare, si iscrivono in una spazio politico, ma appunto non siamo nell’illustrazione. Pedro Costa non illustra, non denuncia, non è il suo problema. Quando lo si conosce si vede bene che non è uno che parla di politica, ma è un animale politico. Nelle cose che abbiamo detto, le cose di cui abbiamo parlato, rispondono tutte alla domanda cosa vediamo? e come lo vediamo? Siamo obbligati a porci questa domanda. In Iraq, per esempio, nella produzione attuale, cosa vediamo? Vediamo dei sintomi di una crisi, e io non sono una sociologa o una psicologa, ma dico questo perché conosco l’insieme della produzione interna e mi sembra che mostrare senza commentare non abbia senso, sia un errore. Penso che nel mondo che viviamo la questione della politica sia essenziale. 
Il problema dell’immigrazione non è la questione politica. La questione politica è chi conta e chi non conta. Il resto (i problemi tra Sarkozy e Villepin per esempio) è “politica contingente” e se ci poniamo solo queste domande non si avanza. 
Ci sono spesso dei malintesi, la questione non è l’arte che si autoproclama politica, o ancora meno, l’arte relazionale, per esempio, che vorrebbe funzionare come ersatz, chimera. C’è tutta una serie di lavori che sono quasi niente, solo estetici, che non hanno alcun interesse in termini politici, e questo taglia il terreno, ma sono proprio questi lavori a venir spesso aiutati dalle autorità, le conforta, perché possono dire: “guardate ci sono artisti che mostrano i poveri clochard”. Ma qual è il modo migliore di mostrarli? Una foto che afferma la loro presenza o la loro compresenza, è questo, in una mostra un atto politico?
Beckett è politico, non Houllebeque. Intervista realizzata con Antonio Pezzuto