08 June, 2009

giravolte journal - Intervista a Philippe Garrel - Febbraio 2006

Philippe Garrel è regista di moda, tra cinefili e frequentatori di festival. È un regista di culto, figlio dei fiori, come si diceva un tempo, i suoi primi lavori - cinema di poesia, senza titoli di testa o di coda, semplici lampi senza trama che illuminavano schermo e occhi - sono legati alla figura mitologica e al corpo di Nico, la cantante dei Velvet Underground, morta tragicamente anni fa in un incidente in bicicletta in un’isola spagnola. Con lei ha realizzato i suoi primi film, Le lit de la vierge o La Cicatrice intérieure, soprattutto, delirio lisergico ambientato in Messico, a lei ha dedicato i suoi film più belli, J'entends plus la guitare, soprattutto. Ma Garrel non è solo Nico. Ci sono stati altri corpi (Jean Seberg ripresa senza suono in primo piano in Les Hautes solitudes) il racconto della sua vita e del suo matrimonio (La naissance de l’amour), del cinema (Sauvage innocence), del sessantotto, (Les amants regulier, suo ultimo film, uscito nel 2005).
Garrel ha lavorato e lavora tra film che mettono in scena il contemporaneo usando le forme, gli stili e i ritmi del contemporaneo, e film che raccontano “quello che è successo”, sia quando racconta episodi, privati (una moglie attrice che si inquieta perché il marito regista ha scelto un’altra attrice come protagonista del suo film) o collettivi (il sessantotto). Cinema di poesia e cinema romanzo. Ma sempre, quando racconta, anche quando racconta di realtà ormai trascorse, la sua attenzione all’oggi è prioritaria, nelle parole che si usano, nelle droghe di cui si abusa, nei pensieri che vengono messi in scena.
Per questo - e nonostante il suo involontario essere alla moda - pensiamo che sia importante confrontarsi con le sue parole e i suoi lavori. Per la sua capacità di riflettere sul contemporaneo e di ripensare al passato, di mettere in scena ciò che avviene e ciò che è avvenuto, per il suo essere attivo, dentro le cose ed i movimenti, per il suo duttile rigore.
Abbiamo incontrato Garrel a Perugia, in occasione del Batik che gli ha dedicato una retrospettiva, ed a lui dedichiamo la prima intervista che pubblichiamo, frutto di una lunga conversazione che abbiamo diviso in tre parti differenti, mantenendo un necessario disordine: cinema di poesia e cinema romanzo, il sessantotto e la memoria, il rapporto con il cinema. Tre temi che necessariamente si incrociano e si intersecano. Quando facevo La Cicatrice intérieure - ci ha detto Garrel - io provavo a scrivere della poesia in film, ossia di fare dei film che fossero delle poesie, tutti i miei film di questa epoca sono così. Io leggevo esclusivamente dei poeti, mentre oggi cerco di fare dei romanzi. La poesia è fabbricata in modo completamente differente rispetto ai romanzi. Un romanzo non è una lunga poesia. All’epoca, provavo ad essere un poeta del cinema e cercavo una scrittura che fosse come la scrittura in versi. Con La Cicatrice intérieure, per esempio, è come se avessi provato a far “rimare” dei piani. Oggi la mia ricerca è completamente differente, leggo romanzi moderni, classici e cerco di fabbricare un romanzo - non so se ci sono riuscito con Les amants regulier - ma è ormai da molto che cerco di fabbricare un romanzo. Prima ho iniziato a cercare di fabbricare dei romanzi moderni (La naissance de l’amour o J'entends plus la guitare) e oggi con Les amant regulier o Sauvage innocence ho provato a realizzare dei romanzi classici. Si può dire che la poesia, nel suo cinema, è azione, mentre il romanzo è osservazione, presa di distanza. Cioè che la poesia è stare dentro il mondo mentre il cinema è parte dell’azione.
 Si, è vero. La poesia è una applicazione “diretta” tra la scrittura e la vita e, nello stesso modo, tra la scrittura e la mdp. Al contrario nel romanzo c’è qualcosa che è molto più matematico.
Prendiamo, per esempio, Cesare Pavese che ha scritto molti romanzi e molta poesia. Quando leggiamo un suo poema non è la stesa cosa di quando leggiamo un suo romanzo, non cerchiamo la stessa cosa. E così il lettore o lo spettatore non cerca la stessa cosa se osserva un romanzo o se osserva una poesia. È la stessa cosa nel cinema. Il cinema di poesia non ha la stessa utilità del cinema romanzo. Nel cinema romanzo ci sono modi diversi di elaborare l’immagine e di elaborare la memoria 
Quando scriviamo della poesia non abbiamo bisogno di scrivere il tempo. Quando si scrive un romanzo siamo obbligati a scrivere il tempo nel quale le cose accadono, di dipingere il tempo. Quando si scrive della poesia - era questo che volevo dire con “diretto” - è diverso. Poesia e romanzo sono molto differenti, sono così tanto differenti quanto la pittura e la scultura. Una volta che sono impresse sulla carta, all’esterno hanno la stesa forma, un libro, ma sono molto, molto differenti. Certamente il cinema di poesia esiste in misura molto inferiore rispetto al cinema romanzo. Quando ho fatto i miei primi film ero molto isolato perché il cinema in generale è romanzo, non è poetico. È molto raro il cinema di poesia penso ai miei primi film come penso a Zero in conduit, al film di Jean Genet Un chant d’amour o ai film di Cocteau. Sono eccezioni. Un film che Langlois ci mostrava era Tabù di Murnau e Flaherty. 
Quello che penso è che io, in quanto artista, non ho voglia di mettere idee nella testa delle persone, al contrario, cerco di essere più libero degli altri per raccontare che queste cose succedono così senza alcuna censura. Uno è artista se è in grado di parlare delle cose umane totalmente nella verità e senza censura ma mai per voler influenzare le persone. Seconda parte dell’intervista a Philippe Garrel. Seconda parte che si concentra sul modo con cui è possibile raccontare la storia. E non si poteva che partire da Les amants regulier, film del 2005 Leone d’Argento a Venezia, storia di un amore nato nel maggio del Sessantotto sulle barricate del quartiere latino, tra l’odore acre delle molotov e l’odore dolciastro dell’oppio, tra due ventenni fou, una futura scultrice (Clotilde Hesme) e un poeta (Louis Garrel, che di Philippe è il figlio), scritto assieme a Marc Cholodenko e Arlette Langmann. Il film è stato più difficile da montare, rispetto agli altri miei film - dice Garrel - a causa del soggetto, il maggio Sessantotto, perché i produttori che hanno i soldi sono sempre di destra e la destra non ha voglia di costruire discorsi storici su soggetti che gli sfuggono, come appunto il Sessantotto. È stato molto difficile trovare i finanziamenti, e ho dovuto lavorare più lentamente. Quando realizzi un film, lui è interamente nella tua immaginazione. E sono rimasto quindi molto più tempo, rispetto al solito, dentro questo film proprio a causa di questo disagio economico. Mi hanno rifiutato le sovvenzioni statali a causa del soggetto, o anche, forse, perché è un film in bianco nero. Per me era una scelta estetica ma i produttori, quando sentono di un film in bianco nero, pensano ad un esercizio masochista, che non serve a niente. Il film non ha tagli. Visto che non avevo soldi ho girato esattamente quello di cui avevo bisogno, le tre ore. Non ho levato nessuna scena, e mi sono comportato come se fosse stato un primo film, non rendendomi conto di quanto stesse venendo lungo. E poi dato che nel film c’è mio figlio, filmare era molto naturale. Se voi filmate un attore e ad un certo momento l’attore ha recitato qualcosa con cui avete avuto un rapporto dialettico, l’emozione si realizza sul momento, poi passa. Se filmate vostro figlio è completamente diverso. Come mai proprio oggi lei e Bertolucci avete realizzato, a distanza brevissima, film su questo periodo? È solo per le elezioni del 2006 in Italia e per quelle francesi che Bertolucci fa questo film ed io anche. È per aiutare la sinistra. Parliamo del Sessantotto oggi. Se non lasciamo tracce in qualche anno si dirà che non è mai esistito. Il potere dei soldi lo nasconderà, perché gli da fastidio, avevamo altri valori, non i soldi. Me ne sono reso conto guardando in una enciclopedia la storia di Francia: all’anno 1968 non c’era scritto nulla. Ed è una enciclopedia di Hachette. Siamo dei testimoni oculari, Bertolucci a Campo dei Fiori, io a Parigi e abbiamo fatto film su questo periodo perché le nuove generazioni non sanno nulla di quello che è successo. Sanno solo che ci sono state delle manifestazioni e degli scioperi ma non sanno che c’è stata quasi una insurrezione, che eravamo sul bordo di una guerra civile e che il potere stava per cadere. E vogliamo fare questi film proprio perché veramente il potere stava crollando, in Francia. Oggi un sacco di persone che hanno fatto il Sessantotto sono morte. Noi siamo vivi e siamo cineasti, scriviamo quello che abbiamo vissuto. Se c’è qualcosa di autobiografico nel film non è la storia d’amore ma è il Sessantotto. La storia d’amore è completamente immaginaria, è simile a tutte le altre storie d’amore ma il racconto delle mode del Sessantotto, del rifiuto di fare il servizio militare e di avere un processo, di uscire di notte per parlare di insurrezione, di andare sui tetti dopo la carica della polizia, tutto questo è autobiografico. Il resto del film, le due ore e mezzo di romanzo d’amore, questo è immaginario. Parlare del passato ma con parole e sensibilità contemporanea. Il rapporto con la droga, ad esempio … La maniera nella quale parlo del Sessantotto o dell’oppio non è per niente uguale. Il film precedente l’ho fatto contro l’eroina, perché l’eroina è un problema reale. Faccio molta attenzione sul piano morale a quello che dico perché non voglio dire cose distruttive. Mi permetto di parlare dell’oppio, senza alcuna considerazione positiva o negativa, perché l’oppio non esiste più in Europa, non è più pericoloso perché non si trova. E non si trova più perché la mafia lo trasforma in Oriente per invadere l’Europa di eroina. Non avrei mai parlato così di eroina, in modo così aperto e senza conclusioni morali. Quando ho fatto Sauvage innocence mi sono comportato in modo diverso. È come dire di volere mostrare dei film ai bambini e nello stesso tempo raccontare tutto dell’essere umano. È uno dei problemi che ha l’artista: come si può dire tutto se nella sala ci sono dei bambini. Li influenziamo, ma nello stesso tempo non possiamo fare come in televisione. Si diventa completamente folli davanti alla TV perché quello che ci dicono è totalmente selezionato, i discorsi che fanno riposano sull’interdizione di parlare di un sacco di argomenti della nostra vita. È solo per questo che amiamo il cinema perché il cineasta non ha la morale che hanno coloro che lavorano in TV. Sotto il falso pretesto di non offendere nessuno non dicono nulla. Film che pensano a ieri per raccontare l’oggi… Non c’è per niente nostalgia nel film, i giovani sono usati come degli altri ego. La Storia c’era allora e c’è anche oggi. A Genova, per esempio, c’è stato qualcosa. Questi giovani vengono da qualche parte, non sono isolati, c’è un mondo dietro che continua, che non comprendiamo. Io non volevo fare un film che dicesse che il Sessantotto era la fine di qualcosa. Al contrario. Credo che ogni generazione abbia una propria forma per vivere la storia. La situazione più vicino al film è Genova, le manifestazioni di Genova. Non si può dire che una epoca è più interessante di un altra, è solo che non comprendiamo le altre generazioni, ed il muro tra le generazioni fa si che non riesco a capire i giovani che hanno l’età di mio figlio. Ma questo non vuole dire che non c’è nulla. Oggi è uguale: c’è l’individuale, il collettivo, la storia, i gruppi. Le rotture dei gruppi, le coppie. Penso che tutto questo esista sempre. Il mio film è andato in onda in televisione il 25 ottobre e - per caso - il 26 le banlieu hanno iniziato a bruciare. Alcuni hanno fatto battute su questo, ma la storia dell’insurrezione inizia sempre nello stesso modo. È una coincidenza, ma quando bruciano la bandiera francese nel film questo ha sicuramente un effetto per il pubblico francese. Trovo interessante anche questo, i pubblici sono molto differenti rispetto alla nazionalità. A Venezia, per esempio quando l’attrice dice “hai visto Prima della rivoluzione di Bernardo Bertolucci” tutti erano molto emozionati, perché eravamo in Italia. In Francia questa frase non crea nulla, ci si ricorda solo che in quell’epoca si parlava di Prima della rivoluzione, mentre quando brucia la bandiera si crea una tensione. La nazionalità del pubblico la vedi anche in rapporto alle bestemmie: per esempio quando il personaggio ha paura e piscia sotto la statua della Madonna, gli effetti sono diversi secondo i luoghi dove lo proietti. A volte la gente ride a volte è un po’ scioccata. Penso che questo film affronti argomenti ancora viventi storicamente, ricordano qualcosa che è ancora vivo. Mentre facevo la ricostruzione del Sessantotto pensavo alla barricata e pensavo a Genova. Argomenti ancora viventi storicamente ai quali le distribuzioni riservano spazi marginali.. Il progetto non è quello di far vedere a tutti Pierrot le fou di Godard. Il progetto non è che tutti gli italiani debbano vedere Deserto rosso e che tutti i grandi cinema lo proiettino. Chiediamo solo che si possa vedere anche Deserto rosso, non solo lui. Il nostro progetto non è di mettere il nostro cinema al posto di quello hollywoodiano, perché questa sarebbe una uguale forma di totalitarismo culturale. Non vogliamo tutto il mondo ma solo una parte del mondo. Per questo la destra ci teme e la sinistra ci tollera, perché la sinistra permette il margine e se voi volete vivere nel margine è necessario che abbiate il diritto di vivere al margine. Quello che rivendichiamo è proprio questo diritto al margine, non che i nostri film siano obbligatori per tutti. La storia della cultura è una storia di permissività. È per questo che ci interessa che la sinistra vinca in Italia ad aprile, perché vogliamo il diritto ad essere differenti.. E questo sarebbe già molto. 
Concludiamo l’intervista a Philippe Garrel realizzata in occasione del festival Batik, cercando di parlare del senso della sua esperienza artistica e politica.
 Per vedere film come il mio - continua Garrell - bisogna essere pronti. Pronti a vederli, altrimenti passano completamente di lato, anche a causa della loro lunga durata, perché oggi non si hanno tre ore da dedicare ad un film. Anche se abbiamo tempo per leggere dei libri, per un film questo tempo non c’è, è come se non avessimo più il tempo da consacrare all’arte.
Quando si è giovani artisti si dice sempre che si vuole influenzare o affermare il proprio aver ragione. Ora voglio continuare ad essere considerato artista sveglio, o uno che continua a fare arte, cioè capace di dire le cose senza tabù. C’è una sorta di scollamento tra il cinema e la società … 
Non sono così sicuro di quello che faccio. Se interesso è anche perché c’è un lato legato alla moda, al fatto che le persone amano quel determinato cineasta. Nel cinema, e ovunque, oggi si è molto soggetti alla moda, e alcuni registi funzionano perché sono di moda. Si può distinguere tra buoni film dai cattivi film ma è molto difficile parlare di cinema. È molto difficile dire che un film è riuscito, o che un film è migliore di un altro, non credo che oggi gli autori siano in grado di fare film potenti. Certo, Lars Von Trier è riuscito a fare Breacking the Waves, dove lo spettatore non riesce a scappare. Io non sono ancora riuscito a fare film potenti, forse perché ho troppi pochi mezzi rispetto a altri autori, e non ho ancora questo forza sul grande pubblico. Non sono per niente convinto della potenza sul pubblico di quello che faccio. Ma questo non vale solo per me. Anche Godard oggi non ha enorme pubblico. È molto difficile fare un film vero (da un punto di vista cinematografico) e nello stesso tempo con potenza rispetto agli spettatori. In Les amants regulier, appena si esce dal Sessantotto, dopo i primi tre rulli, la storia perde enormemente di potenza. Se si parla di cinema come ipnosi, arrivi a fare delle cose come Hitchcock, che ipnotizzano. Non ho ancora finito la mia ricerca.
Per fare cinema si deve essere nello stesso momento molto sintetici (perché la gente non ha tempo), ma si deve catturare lo spettatore interamente con molta velocità, fargli dimenticare quello che c’è intorno. E questo è molto difficile anche i più film riusciti hanno un lato preistorico, rispetto a questo. È molto difficile essere nello stesso tempo integrali (prendere integralmente il pensiero delle persone) e nello stesso tempo molto corti (farlo il più velocemente possibile). Ed io penso che questo sia impossibile, non funziona. Il cinema oggi è un arte che non funziona bene. Nel suo cinema gli aspetti legati alla memoria, alla Storia sono sempre presenti almeno quanto i riferimenti alla poesia. Quale è la sua opinione sul rapporto tra la finzione e il reale?
 Se parliamo in rapporto alla memoria: l’utilizzazione della vita reale in una poesia o in un romanzo non ha la stessa funzione. 
Rispetto alla situazione in Francia di oggi, per esempio, c’è un regista, Jean François Richet che ha fatto un film intitolato Ma 6-T va crack-er. Lui può fare questo film, noi no. Avevo scritto una sceneggiatura sulla vita di un operaio, e quando ho finito mi sono reso conto che non ero assolutamente in grado di metterlo in scena, non potevo dirigere gli attori, sarei stato ridicolo. Non possiamo parlare che di quello che conosciamo. Un artista non può parlare di molte cose, può parlare solo in relazione al suo paese, alla sua classe sociale, al maschile. La cosa di cui parlo di più, la più grande ricerca che faccio, a parte il maggio Sessantotto, è - per questo sono discepolo di Godard - l’essere maschile. E la sua relazione con l’essere femminile. È questo che studio. Già non capisco le nuove generazioni, o le persone che appartengono alla mia stessa classe sociale, è impossibile capire cosa ha nella testa un giovane operaio arabo, umiliato ogni giorno dai poliziotti e che dice basta. Sappiamo solo che esiste. Ma è il cinema la forma d’arte in grado di raccontare il disagio contemporaneo?
 Godard dice che ci sono sempre più macchine per comunicare ma abbiamo sempre meno cose da dire. 
Io sono costretto ad appoggiarmi sulle altre arti, non posso prendere una posizione solo rispetto alla storia del cinema perché c’è tutta una parte di cinema che è troppo volgare, una parte di quello che la gente intende come cinema è troppo volgare, e allora sono costretto a confrontarmi con la pittura e la letteratura. Per esempio, penso a Camus e penso che il cinema non ha mai avuto Camus, ossia uno che era allo stesso tempo il più grande scrittore ed il più grande specialista di scrittura. Godard e Antonioni sono dei geni artistici in qualche modo, ma non hanno avuto questa altezza nella loro vita, come la ha avuta Camus. Mi comparo con altre arti per arrivare da qualche parte, perchè il cinema non è umanista, in generale è naturalista e questo non è per niente interessante. Forse siamo ancora agli inizi del cinema, ma è come se fossimo ancora in un’epoca nella quale la pittura d’amore non era ancora uscita dalle Chiese. A parte la Nouvelle Vague (Truffaut, Godard, Demy, Varda, Rivette, Eustache) o gli italiani (Antonioni, Pasolini, Fellini Visconti) - i miei maestri, quelli della mia generazione, li considero degli uguali a me, non come dei padri - c’è qualcosa che resta nel cinema italiano o francese che mi interessa, se no mi rivolgo alla pittura, studio pittori, non posso restare nel cinema. Ci sono dei giovani, adesso, che sono tutti nel cinema, non esiste che il cinema, ed è a causa del fatto che i media difendono quella parte del cinema molto volgare che devo uscire dal cinema. La danza o il teatro, sono ambienti che interessano solo persone di una certa cultura, ma visto che il cinema, come la musica, interessano la totalità del mondo, sono le due arti che hanno più volgarità. Sono costretto, per non trovare questa volgarità, a rivolgermi alle arti che non interessano il mondo, come la scultura. Mi appoggio sempre sull’osservazione delle altre arti. Se non ci fosse che il cinema sarebbe folle, atroce. Parla dei suoi padri (Nouvelle Vague, Antonioni ..), ma la sua generazione è stata in grado di avere dei figli? Certo, in Francia, ci sono Deplechin, e Carax, per esempio, che sono molto importanti. O Chantal Ackerman. Prima facevo ogni quattro o cinque film un film con mio padre, che fa l’attore, adesso penso che ogni 4 o 5 film farò un film con mio figlio. Sento spesso dire che la nostra generazione non ha dei figli ma penso che non sia vero, penso che la generazione del Sessantotto è stata più lenta, ma finalmente i figli, ora ci sono. Un’altra delle caratteristiche degli anni Sessanta e Settanta erano le esperienze collettive. Nei suoi lavori sembra, quasi sempre, che queste esperienze, per svariati motivi, siano destinate al fallimento…
È una immagine, non vuol dire nulla. Possiamo parlare dell’esperienza del gruppo ma non ha rapporto con la coppia. 
Ma questo è forse è proprio dell’individuo. È come se, per esempio, nel maggio Sessantotto avevamo studiato Marx. E poi dovevamo studiare Freud. C’è una ragione e la ragione è che il collettivo non rimpiazza mai la famiglia nell’educazione, perché nella educazione la cosa più importante è la coppia, i genitori, la famiglia. Ma c’è ancora gente che studia Marx, perché Genova è la prova che ci sono dei giovano che hanno 18 o 16 anni e vogliono cambiare il mondo, provare a migliorarlo. Con artisti come Bertolucci o Bellocchio siamo aperti al mondo ma forse non partiamo più dall’idea di poterlo trasformare, anche se abbiamo la volontà di trasformarlo, abbiamo più un atteggiamento da stoici. Ma la domanda che fate è frutto di una riflessione generale, come fosse il titolo di un saggio, “tutti i gruppi quando diventano uno”. Ma non è solo perché c’era l’antisemitismo nel comunismo che il comunismo ha fallito, c’erano degli altri errori, la Germania dell’est, tutti gli orrori. Ci sono anche delle ragioni nella natura umana che fanno si che non si riesca ad uscire dalla preistoria dei rapporti interpersonali. Nello stesso modo si potrebbero studiare i gruppi di rock & roll e vedere come mai ad un certo momento il gruppo diventa un falso gruppo, diventa un gruppo solo economicamente, nel modo di sopravvivere, ma non più unito sul piano dell’amicizia. Credo che la coppia sia più in relazione alla natura, mentre il gruppo è più legato alla giovinezza, che non vive mai nell’eternità e che c’è sempre qualcosa che lo fa crollare, precipitare, come nel film. Intervista realizzata con Mazzino Montinari e Antonio Pezzuto